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creditore, scaraventando uno sputo contro la parete.

Un ragno gli passava sotto gli occhi, zitto zitto, come impaurito dal lume, traballando leggermente su le otto lunghe esilissime gambe. Paolo aveva ribrezzo di questi animaletti, come le donne dei topi. Subito scattava in piedi, si levava una pantofola, e pàffete! — schiacciava con la suola il ragno; poi, col volto atteggiato di schifo, stava un po’ a mirar la vittima così appiccicata alla parete.

Dopo la morte dello zio, aveva piantato tenda definitivamente alla concerìa. Vi mangiava e vi dormiva; e in quella stanzaccia intanfata non permetteva che entrasse mai alcuno. Lui si apparecchiava da mangiare, lui il letto, tutto lui; ma glien’andasse mai una bene! Cercava le posate? — la carne gli s’abbruciava sul fuoco. Voleva bere? — trovava scandelle a galla sul vino. Chi aveva versato olio nel suo bicchiere?

— Puah! Mannaggia....

E restava con la lingua fuori e il volto atteggiato di schifo.

Ma era niente, questo. Quel che gli toccava combattere con un nugolo di corvi piombati su la concerìa dopo la morte dello zio! Difendeva con feroce zelo gl’interessi della povera vedova, il cortile della concerìa rimbombava delle sue