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a Maria o alla zia Agata. Narrava con garbuglio opprimente di parole tutte le peripezie della giornata, e si ripiegava in tutti i versi su la seggiola e girava gli occhi di qua e di là e sudava e inghiottiva. Ogni periodo di quel suo discorso avviluppato restava in aria o sfumava a un tratto in una esclamazione; se però qualcuno, per disgrazia, gli riusciva alla fine senza impuntature, egli lo ripeteva tre e quattro volte, prima di rimettersi alla fatica di figliarne un altro.

La zia mostrava d’ascoltarlo con attenzione, assentiva col capo quasi a ogni parola e spesso, alla fine, sapendo ch’egli ormai non aveva più alcuno in casa, lo invitava a rimanere a cena.

Paolo accettava quasi sempre. Ma erano ben tristi quelle cene in silenzio, interrotte dall’invio del cibo alla stanza del rinchiuso, gelate dall’aspetto di Maria, che ne ritornava ogni volta più afflitta, più oppressa.

Marta osservava ogni cosa con una strana espressione negli occhi, or quasi derisoria, ora sdegnosa. Quel dolore impresso negli altri non era un raffaccio a lei della presunta sua colpa? Spesso si alzava, abbandonava la tavola, senza dir nulla.

— Marta!

Non rispondeva: andava a chiudersi nella sua cameretta. Maria allora, dietro l’uscio, la pregava