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mote da quella ove Francesco Ajala se ne stava rinchiuso. Nessuna voce, nessun rumore giungevano a gli orecchi di lui, che, seduto su la poltrona a pie’ del letto, guardava la soglia illuminata sotto l’uscio nero, spiava il lieve, cauto scalpiccio su l’assito della stanza attigua e si sforzava d’indovinare chi vi passasse in punta di piedi. Non lei, certo: era Agata.... era Maria.... era la serva....

— La concerìa, — volle un giorno rammentargli la moglie. — Vuoi che proprio tutto si perda così?

— Tutto! tutto! — le rispose egli. — Morremo di fame.

— E Maria? Non è figlia tua anche lei? Che colpa ha la povera Maria?

— Ed io? — gridò l’Ajala, levandosi torbido innanzi alla moglie. — Che colpa avevo io? Tu l’hai voluto!

Si frenò, sedette di nuovo; poi riprese con voce cupa:

— Fa’ che venga da me tuo nipote, Paolo Sistri. Affiderò a lui la direzione della conceria. Non c’è più da aver superbia, ora. Voleva Marta in moglie? Se la pigli! Ormai può esser di tutti.

— Oh Francesco!

— Basta così! Manda a chiamar Paolo. Andate via!