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appoggiata al portone, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi con un fazzoletto che teneva in mano da quattro ore.
Un rumor di passi per il lungo androne interno, cupo, rintronante: lo sportello a destra del portone s’aprì, e l’Ajala, curvandosi, sporgendo il capo, afferrò per un braccio la moglie.
— Che sei venuta a far qui? Che vuoi? Chi sei? Non ho più nessuno io, nessuno, nessuno; nè famiglia nè casa! Fuori tutti! Fuori! Schifo mi fate, ribrezzo! Vattene via! via!
E le diede un violento spintone.
Ella rimase, col braccio indolenzito dalla stretta, lì innanzi al vano de lo sportello; poi entrò come un’ombra, rassegnata ad aspettare ch’egli si votasse il cuore di tutta la collera, rovesciandogliela addosso; decisa anche a farsi percuotere.
In mezzo al bujo androne, l’Ajala, con le mani intrecciate dietro la nuca, le braccia strette intorno alla testa, s’era messo a guardare la grande porta a vetri, in fondo, cieca nel blando chiaror lunare. Si voltò, sentendo nel bujo piangere la moglie; le venne incontro con le pugna serrate, ruggendo con scherno:
— L’hai ricevuta in casa? Te la sei baciata, carezzata, lisciata, la tua bella figlia? Che vuoi ora da me? Che aspetti qua? me lo dici?
— Vuoi partire.... — singhiozzò ella, piano.