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congiunti, toccando appena il pavimento con la punta delle scarpe; le braccia conserte, come un ragazzo in castigo. I suoi pantaloni erano così stretti, che parevano cuciti su le gambe. Donna Maria Rosa, grassa e rubiconda, si rialzò su una spalla il lunghissimo e fitto velo di crespo che le pendeva dal cappello sul volto e, sedendo, trasse un altro sospiro lamentoso.

Erano marito e moglie da tre mesi. Da un anno soltanto era morto il primo marito di donna Maria Rosa, don Isidoro Joè, detto don Dorò, fratello maggiore di don Fifo. E donna Maria Rosa, durante la lunga visita, non parlò che del marito defunto e del suo primo matrimonio, con le lagrime agli occhi e nella voce, come se don Dorò fosse morto jeri. Don Fifo, immobile, ascoltava con gli occhi bassi e le braccia conserte quell’eterno elogio funebre del fratello, di cui egli pareva il sarcofago e la moglie il cenotafio.

Ah, nessuno, nessuno avrebbe saputo ridire tutte le virtù di don Dorò (le veltù — diceva donna Maria Rosa per parlare in lingua). Ella e don Fifo, mentre Dorò viveva, si eran data la mano per circondarlo di cure e di rispetto. Egli, Dorò, era stato la loro guida nella vita, il loro maestro. Marito, moglie e cognato erano vissuti sempre insieme, un’anima in tre corpi.