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a un’altra delle loro. Ed Eufemia faceva le viste di non accorgersene, per mantenersi in buoni rapporti con esse.

— Oh Marta! Che fortuna! — esclamò ella entrando e accorrendo a baciar l’amica, senza impaccio. Salutò, ridendo, la signora Agata, e sedette sul divano, lasciando in mezzo Marta. — Che fortuna! — ripetè. — Come va? Qua di nuovo con noi? E farai gli esami?

Era bruna, magrissima, miserina nella veste latte e caffè scuro, guarnita di nero. Parlando fremeva tutta, agitava continuamente le palpebre su gli occhietti vivi da furetto; ridendo scopriva la gengiva superiore e i denti bianchissimi.

Cominciavano di già le domande imbarazzanti. E bisognava pur rispondere alla meglio alle più discrete; le altre però che restavano negli occhi d’Eufemia costringevano le parole di Marta a non esser sincere.

La signora Agata si alzò.

— Io torno a casa, Marta. Ti lascio con l’amica. Coraggio, figliuole mie!

Uscendo dalla sala d’aspetto, vide nell’atrio un crocchio di signorine in abiti gaj d’estate, tra le quali riconobbe alcune antiche compagne di Marta. Queste tacquero a un tratto e abbassarono gli occhi mentr’ella passava. Nessuna la