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al portone della chiesa, dove la gente accalcata faceva a gomitate per entrare. Marta e Anna Veronica si trovaron prese, quasi schiacciate tra quel pigia pigia e sospinte alla fine senza muover piede entro la chiesa buja, zeppa di curiosi e di devoti.

Deposto in mezzo alla navata centrale s’ergeva il fèrcolo enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse della disornata bestiale processione. Sul fèrcolo, le statue dei due santi dalle teste di ferro, quasi identiche nell’atteggiamento, con le tuniche fino ai piedi e una palma in mano. In fondo, sotto un arco della navata, a sinistra, tra due colonne, attorno a un’ampia tavola, stava in gran faccende la Commissione dei festajoli, che riceveva dai divoti il compimento delle promesse: tabelle votive, in cui era rappresentato rozzamente il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d’altare, gambe, braccia, mammelle, piedi e mani di cera.

Tra i festajoli, quell’anno, era Antonio Pentàgora.

Per fortuna, Anna Veronica se n’accorse prima d’accostarsi alla tavola; ristette perplessa, confusa.

— Rimani qua un momentino, Marta. M’accosto io sola.

— Perchè? — domandò Marta, che s’era fatta