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Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo a pensare a’ miei creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei biglietti di banca. Nasconderli, non potevo. E poi, a che m’avrebbero servito, nascosti?

Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere. Per rifarsi lì, col molino della Stia e coi frutti del podere, dovendo pagare anche l’amministrazione, che si mangiava poi tutto a due palmenti (a due palmenti era anche il molino), chi sa quant’anni ancora avrebbero dovuto aspettare. Ora, forse, con un’offerta in contanti, me li sarei levati d’addosso a buon patto. E facevo il conto:

— Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo Brìsigo, e mi piacerebbe che gli servissero per pagarsi il funerale: non caverebbe più sangue ai poverelli!; tanto a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova Lippani.... Chi altro c’è? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e Margottini.... Ecco tutta la mia vincita! »

Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia per que’ due giorni di perdita! Sarei stato ricco di nuovo.... ricco!

Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei sorrisi di prima i miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo requie. Era imminente la sera: l’aria pareva di cenere; e l’uggia del viaggio era insopportabile.

Alla prima stazione italiana comprai un giornale, con la speranza che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere. Ebbi così la consolazione di sapere che il castello di Valencay, messo all’incanto per la seconda volta, era stato aggiu-