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Chiusi gli occhi, dovevo essere pallidissimo. Si fece un gran silenzio, e mi parve che si facesse per me solo, come se tutti fossero sospesi nell’ansia mia terribile. La boule girò, girò un’eternità, con una lentezza che esasperava di punto in punto l’insostenibile tortura. Alfine cadde.
M’aspettavo che il croupier, con la solita voce (mi parve lontanissima), dovesse annunziare:
— Trentecinq, noir, impair et passe!
Presi il denaro e dovetti allontanarmi, come un ubriaco. Caddi a sedere sul divano, sfinito: appoggiai il capo alla spalliera, per un bisogno improvviso, irresistibile, di dormire, di ristorarmi con un po’ di sonno. E già quasi vi cedevo, quando mi sentii addosso un peso, un peso materiale, che subito mi fece riscuotere. Quanto avevo vinto? Aprii gli occhi; ma dovetti richiuderli immediatamente: mi girava la testa. Il caldo, là entro, era soffocante. Come! Era già sera? Avevo intraveduto i lumi accesi. E quanto tempo avevo dunque giocato? Mi alzai pian piano; uscii.
*
Fuori, nell’atrio, era ancora giorno. La freschezza dell’aria mi rinfrancò.
Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi, solitarii; altri, a due, a tre, chiacchierando e fumando.
Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora impacciato, avrei voluto parere anch’io almeno un po’ come di casa; e studiavo quelli che mi parevano più disinvolti; se non che, quando