Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 36 — |
piccolo porro ch’ella aveva sulla nuca, ma finanche d’una cicatrice quasi invisibile in una mano, che le baciavo e le baciavo e le baciavo... per conto di Pomino, perdutamente.
Eppure, forse, non sarebbe accaduto nulla di grave, se una mattina Romilda (eravamo alla Stìa e avevamo lasciato la madre ad ammirare il molino), tutt’a un tratto, smettendo lo scherzo troppo ormai prolungato sul suo timido amante lontano, non avesse avuto un’improvvisa convulsione di pianto e non m’avesse buttato le braccia al collo, scongiurandomi tutta tremante che avessi pietà di lei; me la togliessi comunque, purchè via lontano, lontano dalla sua casa, lontano da quella sua madraccia, da tutti, subito, subito, subito...
Lontano? Come potevo così subito condurla via, lontano?
Dopo, sì, per parecchi giorni, ancora ebbro di lei, cercai il modo, risoluto a tutto, onestamente. E già cominciavo a predisporre mia madre alla notizia del mio prossimo matrimonio, ormai inevitabile, per debito di coscienza, quando, senza saper perchè, mi vidi arrivare una lettera secca secca di Romilda, che mi diceva di non occuparmi più di lei in alcun modo e di non recarmi mai più in casa sua, considerando come finita per sempre la nostra relazione.
Ah sì? E come? Che era avvenuto?
Lo stesso giorno Oliva corse piangendo in casa nostra ad annunziare alla mamma ch’ella era la donna più infelice di questo mondo, che la pace della sua casa era per sempre distrutta. Il suo uomo era riuscito a far la prova che non mancava per lui aver figliuoli; era venuto ad annunziarglielo, trionfante.