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Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con tal calore d’ammirazione, ch’egli subito se ne accese, felicissimo che anche a me fosse tanto piaciuta e d’aver la mia approvazione.

Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l’aria d’essere una strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun dubbio su le mire odiose del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza.

— E come? — mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra.

— Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in fondo; studiar bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su due piedi. Lascia fare a me: t’ajuterò. Codesta avventura mi piace.

— Eh... ma... — obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi su le spine nel vedermi così infatuato. — Tu diresti forse... sposarla?

— Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse?

— No, perchè?

— Ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a conoscere ch’ella è davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa (bella è, non c’è dubbio, e ti piace, è vero?) — oh! poniamo ora che veramente ella sia esposta, per la nequizia della madre e di quell’altra canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame: proveresti tu ritegno innanzi a un atto meritorio, a un’opera santa, di salvazione?