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tevo, senza far nomi nè di luoghi nè di persone, per dimostrare che non m’ero affatto spassato in quei due anni. E così, conversando insieme, aspettammo l’alba del giorno in cui doveva pubblicamente affermarsi la mia resurrezione.
Eravamo stanchi della veglia e delle forti emozioni provate; eravamo anche infreddoliti. Per riscaldarci un po’, Romilda volle preparare con le sue mani il caffè. Nel porgermi la tazza, mi guardò, con su le labbra un lieve, mesto sorriso, quasi lontano, e disse:
— Tu, al solito, senza zucchero, è vero?
Che lesse in quell’attimo negli occhi miei? Abbassò subito lo sguardo.
In quella livida luce dell’alba, sentii stringermi la gola da un nodo di pianto inatteso, e guardai Pomino odiosamente. Ma il caffè mi fumava sotto il naso, inebriandomi del suo aroma e cominciai a sorbirlo lentamente. Domandai quindi a Pomino il permesso di lasciare a casa sua la valigia, fino a tanto che non avessi trovato un alloggio: avrei poi mandato qualcuno a ritirarla.
— Ma sì! ma sì! — mi rispose egli, premuroso. — Anzi non te ne curare: penserò io a fartela portare...
— Oh, — dissi, — tanto è vuota, sai?... A proposito, Romilda: avresti ancora, per caso, qualcosa di mio... abiti, biancheria?
— No, nulla... — mi rispose, dolente, aprendo le mani. — Capirai... dopo la disgrazia...
— Chi poteva immaginarselo? — esclamò Pomino.
Ma giurerei ch’egli, l’avaro Pomino, aveva al collo un mio antico fazzoletto di seta.