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mino, sorrise nervosamente: poi, riabbassando gli occhi e guardandosi le mani:
— Che posso dire?... Certo che piansi...
— E non te lo meritavi! — brontolò la Pescatore.
— Grazie! Ma infine, via... fu poco, è vero? — ripresi. — Codesti begli occhi, che pur s’ingannarono così facilmente, non ebbero a sciuparsi molto, di certo.
— Rimanemmo assai male, — disse, a mo’ di scusa, Romilda. — E se non fosse stato per lui...
— Bravo Pomino! — esclamai. — Ma quella canaglia di Malagna, niente?
— Niente, — rispose, dura, asciutta, la Pescatore. — Tutto fece lui...
E additò Pomino.
— Cioè... cioè... — corresse questi, — il povero babbo... Sai ch’era al Municipio? Bene, fece prima accordare una pensioncina, data la sciagura... e poi...
— Poi accondiscese alle nozze?
— Felicissimo! E ci volle qua, tutti, con sè... Mah! Da due mesi...
E prese a narrarmi la malattia e la morte del padre, l’amore di lui per Romilda e per la nipotina, il compianto che la sua morte aveva raccolto in tutto il paese. Io domandai allora notizie della zia Scolastica, tanto amica del cavalier Pomino. La vedova Pescatore, che si ricordava ancora del batuffolo di pasta appiastratole in faccia dalla terribile vecchia, si agitò sulla sedia. Pomino mi rispose che non la vedeva più da due anni, ma che era viva; poi, a sua volta, mi domandò che avevo fatto io, dov’ero stato, ecc. Dissi quel tanto che po-