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Ci recammo nella sala da pranzo, dove, sulla tavola ancora apparecchiata, erano i resti della cena. Tutto tremante, stralunato, scontraffatto nel pallore cadaverico, battendo di continuo le palpebre su gli occhietti diventati scialbi, forati in mezzo da due punti neri, acuti di spasimo, Pomino si grattava la fronte e diceva, quasi vaneggiando:

— Vivo... vivo... Come si fa? come si fa?

— Non mi seccare! — gli gridai. — Adesso vedremo, ti dico.

Romilda, indossata la veste da camera, venne a raggiungerci. Io rimasi a guardarla alla luce, ammirato: era ridivenuta bella come un tempo, anzi più formosa.

— Fàmmiti vedere... — le dissi. — Permetti, Pomino? Non c’è niente di male: sono marito anch’io, anzi prima e più di te. Non ti vergognare, via, Romilda! Guarda, guarda come si torce Mino! Ma che ti posso fare se non son morto davvero?

— Così non è possibile! — sbuffò Pomino, livido.

— S’inquieta! — feci, ammiccando, a Romilda. — No, via, càlmati, Mino... Ti ho detto che te la lascio, e mantengo la parola. Solo, aspetta... con permesso!

Mi accostai a Romilda e le scoccai un bel bacione su la guancia.

— Mattia! — gridò Pomino, fremente.

Scoppiai a ridere di nuovo.

— Geloso? di me? Va’ là! Ho il diritto della precedenza. Del resto, su, Romilda, cancella, cancella... Guarda, venendo, supponevo (scusami, sai, Romilda), supponevo, caro Mino, che t’avrei fatto un gran piacere, a liberartene, e