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come se — alle grida — si fosse levata di letto in fretta in furia, si fece innanzi, m’intravide:
— Mattia! — e cadde tra le braccia di Pomino e della madre, che la trascinarono via, lasciando, nello scompiglio, la piccina in braccio a me, accorso con loro.
Restai al bujo, là, nella sala d’ingresso, con quella gracile bimbetta in braccio, che vagiva con la vocina agra di latte. Costernato, sconvolto, sentivo ancora negli orecchi il grido della donna ch’era stata mia, e che ora, ecco, era madre di questa bimba non mia, non mia! mentre la mia, ah, non la aveva amata, lei, allora! E dunque, no, io ora, no, perdio! non dovevo aver pietà di questa, nè di loro. S’era rimaritata? E io ora.... — Ma seguitava a vagire quella piccina, a vagire; e allora.... che fare? per quietarla, me l’adagiai sul petto e cominciai a batterle pian pianino una mano su le spallucce e a dondolarla passeggiando. L’odio mi sbollì, l’impeto cedette. E a poco a poco la bimba si tacque.
Pomino chiamò nel bujo con sgomento:
— Mattia!... La piccina!...
— Sta’ zitto! L’ho qua, — gli risposi.
— E che fai?
— Me la mangio.... Che faccio!... L’avete buttata in braccio a me.... Ora lasciamela stare! S’è quietata. Dov’è Romilda?
Accostandomisi, tutto tremante e sospeso, come una cagna che veda in mano al padrone la sua cucciola:
— Romilda? Perchè? — mi domandò.
— Perchè voglio parlarle! — gli risposi ruvidamente.
— È svenuta, sai?