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davo, come se non toccassi terra coi piedi. Non saprei ridire in che animo fossi: ho soltanto l’impressione come d’una enorme, omerica risata che, nell’orgasmo violento, mi sconvolgeva tutte le viscere, senza poter scoppiare: se fosse scoppiata, avrebbe fatto balzar fuori, come denti, i selci della via, e vacillar le case.

Giunsi in un attimo a casa Pomino; ma in quella specie di bacheca che è nell’androne non trovai la vecchia portinaja; fremendo, attendevo da qualche minuto, quando su un battente del portone scorsi una fascia di lutto stinta e polverosa, inchiodata lì, evidentemente, da parecchi mesi. Chi era morto? La vedova Pescatore? Il cavalier Pomino? Uno dei due, certamente. Forse il cavaliere.... In questo caso, i miei due colombi, li avrei trovati su, senz’altro, insediati nel Palazzo. Non potei aspettar più oltre: mi lanciai a balzi su per la scala. Alla seconda branca, ecco la portinaja.

— Il cavalier Pomino?

Dallo stupore con cui quella vecchia tartaruga mi guardò, compresi che proprio il povero cavaliere doveva esser morto.

— Il figlio! il figlio! — mi corressi subito, riprendendo a salire.

Non so che cosa borbottasse tra sè la vecchia per le scale. A piè dell’ultima branca dovetti fermarmi: non tiravo più fiato! guardai la porta; pensai: — «Forse cenano ancora, tutti e tre a tavola.... senz’alcun sospetto. Fra pochi istanti, appena avrò bussato a quella porta, la loro vita sarà sconvolta.... Ecco, è in mia mano ancora la sorte che pende loro sul capo».