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guardavo attorno, in quel salottino chiaro, ben messo, arredato di mobili nuovi di lacca verdina. Vidi a un tratto, su la soglia dell’uscio per cui ero entrato, un bel bimbetto, di circa quattr’anni, con un piccolo annaffiatojo in una mano e un rastrellino nell’altra. Mi guardava con tanto d’occhi.

Provai una tenerezza indicibile: doveva essere un mio nipotino, il figlio maggiore di Berto; mi chinai, gli accennai con la mano di farsi avanti; ma gli feci paura; scappò via.

Sentii in quel punto schiudere l’altro uscio del salotto. Mi rizzai, gli occhi mi s’intorbidarono dalla commozione, una specie di riso convulso mi gorgogliò in gola.

Roberto era rimasto innanzi a me, turbato, quasi stordito.

— Con chi...? — fece.

— Berto! — gli gridai, aprendo le braccia. — Non mi riconosci?

Diventò pallidissimo, al suono della mia voce, si passò rapidamente una mano su la fronte e su gli occhi, vacillò, balbettando:

— Com’è... com’è... com’è?

Ma io fui pronto a sorreggerlo, quantunque egli si traesse indietro, quasi per paura.

— Son io! Mattia! non aver paura! Non sono morto... Mi vedi? Toccami! Sono io, Roberto. Non sono mai stato più vivo d’adesso! Su, su, su...

— Mattia! Mattia! Mattia! — prese a dire il povero Berto, non credendo ancora agli occhi suoi. — Ma com’è? Tu? Oh Dio... com’è? Fratello mio! Caro Mattia!

E m’abbracciò forte, forte, forte. Mi misi a piangere come un bambino.