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Non dirò che, alla lettura, mi tranquillassi: non potevo. La costernazione che mi teneva, fu però presto ovviata dal vedere che alla notizia del mio suicidio i giornali avevano dato le proporzioni d’uno dei soliti fatti di cronaca. Dicevano tutti, su per giù, la stessa cosa: del cappello, del bastone trovati sul Ponte Margherita, col laconico bigliettino; ch’ero torinese, uomo alquanto singolare, e che s’ignoravano le ragioni che mi avevano spinto al triste passo. Uno però avanzava la supposizione che ci fosse di mezzo una « ragione intima », fondandosi sul « diverbio con un giovane pittore spagnuolo, in casa di un notissimo personaggio del mondo clericale ».
Un altro diceva « probabilmente per dissesti finanziari ». Notizie vaghe, insomma, e brevi. Solo un giornale del mattino, solito di narrar diffusamente i fatti del giorno, accennava « alla sorpresa e al dolore della famiglia del cav. Anselmo Paleari, capo-sezione al Ministero della pubblica istruzione, ora a riposo, presso cui il Meis abitava, molto stimato per il suo riserbo e pe’ suoi modi cortesi ». — Grazie! — Anche questo giornale, riferendo la sfida corsa col pittore spagnuolo M. B., lasciava intendere che la ragione del suicidio dovesse cercarsi in una segreta passione amorosa.
M’ero ucciso per Pepita Pantogada, insomma. Ma, alla fine, meglio così. Il nome d’Adriana non era venuto fuori, né s’era fatto alcun cenno de’ miei biglietti di banca. La questura, dunque, avrebbe indagato nascostamente. Ma su quali tracce?
Potevo partire per Oneglia.