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enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già d’avanzo. Non così zia Scolastica, la quale — non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino — s’era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, s’imbattè in me per una delle stanze abbandonate; m’afferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: — Bellino! bellino! bellino! — e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gli occhi negli occhi, finchè poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, ruggendo tra i denti:

— Muso di cane!

Ce l’aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perchè, tendeva a guardare per conto suo, altrove.

Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero l’occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, quest’occhio non m’avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava.

A diciott’anni m’invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave.