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i gigli d’oro. Una scala, appoggiata all’insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti su quella scala, staccavano dall’insegna i gigli. Il Re se n’accorse e additò con la mano alla Regina quell’atto di vile prudenza del farmacista, che pure in altri tempi aveva sollecitato l’onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo regale. Egli, il marchese d’Auletta, si trovava in quel momento a passare di là: indignato, furente, s’era precipitato entro la farmacia, aveva afferrato per il bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re lì fuori, gli aveva poi sputato in faccia e, brandendo uno di quei gigli staccati, s’era messo a gridare tra la ressa: « Viva il Re! ».

Questo giglio di legno gli ricordava ora, lì nel salotto, quella triste mattina di settembre, e una delle ultime passeggiate del suo Sovrano per le vie di Napoli; ed egli se ne gloriava quasi quanto della chiave d’oro di gentiluomo di camera e dell’insegna di cavaliere di San Gennaro e di tant’altre onorificenze che facevano bella mostra di sè nel salone, sotto i due grandi ritratti a olio di Ferdinando e di Francesco II.

Poco dopo, per attuare il mio tristo disegno, io lasciai il marchese col Paleari e Papiano, e m’accostai a Pepita.

M’accorsi subito ch’ella era molto nervosa e impaziente. Volle per prima cosa saper l’ora da me.

— Quattro e meccio? Bene! bene!

Che fossero però le quattro e meccio non aveva certamente dovuto farle piacere: lo argomentai da quel « Bene! bene! » a denti stretti e dal volubile e quasi aggressivo discorso in