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Quel giorno, però, nel vasto salone splendidamente arredato non trovammo nessuno. Cioè, no. C’era, nel mezzo, un cavalletto, che reggeva una tela a metà abbozzata, la quale voleva essere il ritratto di Minerva, della cagnetta di Pepita, tutta nera, sdrajata su una poltrona tutta bianca, la testa allungata su le due zampette davanti.
— Opera del pittore Bernaldez, — ci annunziò gravemente Papiano, come se facesse una presentazione, che da parte nostra richiedesse un profondissimo inchino.
Entrarono dapprima Pepita Pantogada e la governante, signora Candida.
Avevo veduto l’una e l’altra nella semioscurità della mia camera: ora, alla luce, la signorina Pantogada mi parve un’altra; non in tutto veramente, ma nel naso... Possibile che avesse quel naso in casa mia? Me l’ero figurata con un nasetto all’insù, ardito, e invece aquilino lo aveva, e robusto. Ma era pur bella così: bruna, sfavillante negli occhi, coi capelli lucidi, nerissimi e ondulati; le labbra fine, taglienti, accese. L’abito scuro, punteggiato di bianco, le stava dipinto sul corpo svelto e formoso. La mite bellezza bionda d’Adriana, accanto a lei, impallidiva.
E finalmente potei spiegarmi che cosa avesse in capo la signora Candida! Una magnifica parrucca fulva, riccioluta, e — su la parrucca — un ampio fazzoletto di seta cilestrina, anzi uno scialle, annodato artisticamente sotto il mento. Quanto vivace la cornice, tanto squallida la faccina magra e floscia, tuttochè imbiaccata, lisciata, imbellettata.
Minerva, intanto, la vecchia cagnetta, co’ suoi