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Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s’era sentita tante volte confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che Adriana era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si ribellava contro di me, perchè le pareva ingiusto ch’io facessi soffrire una così buona e bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e dunque se gli uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un’ombra di scusa potevano averla. Ma perchè far soffrire così Adriana?

Questo mi disse il suo sguardo, e m’invitò a guardar colei ch’io facevo soffrire.

Com’era pallida! Le si vedeva ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che sforzo, nell’angoscia, le era costato il doversi abbigliare per uscire con me...


*


Non ostante l’animo con cui mi recai a quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d’Auletta mi destarono una certa curiosità.

Sapevo che egli stava a Roma perchè, ormai, per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie non vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo del potere temporale: restituita Roma al pontefice, l’unità d’Italia si sarebbe sfasciata, e allora... chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per il momento, il suo cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel campo clericale. E la sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati della Curia, dai paladini più fervidi del partito nero.