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ta, da cui il collo pareva uscisse penosamente, come quel d’un pollo spennato, con un grosso nottolino protuberante, che gli andava su e giù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perchè questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai.
Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, che nè la mamma nè noi vedevamo. Non parlava, forse perchè non stimava dover suo parlare, o perchè — com’io ritengo più probabile — ne godeva in segreto, velenosamente.
Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; ma poi, come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno ce lo saremmo aspettato, ci tradiva.
Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; era prossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una breve visitina alla moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma, appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo pagato un buon litro di vino, purchè lui, invece che in chiesa e dal Malagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzone accettò felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci su gli alberi, arrampicandovisi egli stesso. Ma alla