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Due colpi all’uscio mi fecero balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana.

Per quanto, con uno sforzo violento, cercassi d’arrestare in me il tumulto dei sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come avrebbe voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento... No? Perchè no?... Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una busta:

— Ecco, per lei...

— Una lettera?

— Non credo. Sarà la nota del dottor Ambrosini. Il servo vuol sapere se c’è risposta.

Le tremava la voce. Sorrise.

— Subito, — diss’io; ma un’improvvisa tenerezza mi prese, comprendendo ch’ella era venuta con la scusa di quella nota per aver da me una parola che la raffermasse nelle sue speranze; un’angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà di lei e di me, pietà crudele, che mi spingeva irresistibilmente a carezzarla, a carezzare in lei il mio dolore, il quale soltanto in lei, che pur ne era la causa, poteva trovar conforto. E pur sapendo che mi sarei compromesso ancor più, non seppi resistere: le porsi ambo le mani; ella, fiduciosa, ma col volto in fiamme, alzò pian piano sue e le pose sulle mie. Mi attirai allora la sua testina bionda sul petto e le passai lieve una mano su i capelli.

— Povera Adriana!

— Perchè? — mi domandò, sotto la carezza. — Non siamo contenti?

— Sì...

— E allora perchè povera?