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mo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, — non so se questo possa farle piacere — noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perchè purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com’esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in un’altra forma d’esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni ch’esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c’ispirò! —

Oh perchè dunque il signor Anselmo Paleari, pur dicendo, e con ragione, tanto male del lanternino che ciascuno di noi porta in sè acceso, ne voleva accendere ora un altro col vetro rosso, là in camera mia, pe’ suoi esperimenti spiritici? Non era già di troppo quell’uno?

Volli domandarglielo.

— Correttivo! — mi rispose. — Un lanternino contro l’altro! Del resto a un certo punto questo si spegne, sa!

— E le sembra che sia il miglior mezzo, codesto, per vedere qualche cosa? — m’arrischiai a osservare.