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ritavano anzi, come se mi fossero usate per dispetto. Sicuro! Perchè indovinavo da chi mi venivano. Adriana mi dimostrava per mezzo di esse, ch’ella era col pensiero quasi tutto il giorno lì con me, in camera mia; e grazie della consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio, la inseguivo di qua e di là per casa, tutto il giorno, smaniando? Lei sola poteva confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in grado d’intendere come e quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla o di sentirmela almeno vicina.

E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva suscitato la notizia della subitanea partenza da Roma del Pantogada. Mi sarei forse rintanato lì per quaranta giorni al bujo, se avessi saputo ch’egli doveva andar via così presto?

Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario.

— Immaginario? Questo? — gli gridai.

— Abbia pazienza; mi spiego.

E mi svolse (fors’anche perchè fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia.

Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi:

— Dorme, signor Meis?

E io ero tentato di rispondergli:

— Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.

Ma poichè l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che