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mi ha detto che fino a dieci anni lei stette a Torino?

— Ma sì! — riprese quegli allora, seccato che si mettesse in dubbio una cosa per lui certissima. — Cusin, cusin! Questo signore qua... come si chiama?

— Terenzio Papiano, a servirla.

— Terenziano: a l’à dime che to pare a l’è andàit an America: cosa ch’a veul di’ lon? a veul di’ che ti t’ses fieul ’d barba Antôni ca l’è andàit ’ntla America. E nui sôma cusin.

— Ma se mio padre si chiamava Paolo...

Antôni!

— Paolo, Paolo, Paolo. Vuol saperlo meglio di me?

Colui si strinse nelle spalle e stirò in su la bocca:

A m’ smiava Antôni, — disse stropicciandosi il mento ispido d’una barba di quattro giorni almeno, quasi tutta grigia. — ’I veui nen côntradite: sarà prô Paôlo. I ricordo nen ben, perchè mi’ i l’hai nen conôssulo.

Pover’uomo! Era in grado di saperlo meglio di me come si chiamasse quel suo zio andato in America; eppure si rimise, perchè a ogni costo volle esser mio parente. Mi disse che suo padre, il quale si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio... cioè di Paolo, mio padre, era andato via da Torino, quand’egli era ancor masnà, di sette anni, e che — povero impiegato — aveva vissuto sempre lontano dalla famiglia, un po’ qua, un po’ là. Sapeva poco, dunque, dei parenti, sia paterni, sia materni: tuttavia, era certo, certissimo d’esser mio cugino.

Ma il nonno, almeno, il nonno, lo aveva co-