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stone sul pavimento, come se, tenendo i piedi entro un pajo di scarpe di panno che non facevan rumore, volesse sentire così, battendo il bastone, ch’egli camminava.
— Dôva ca l’è stô me car parent? — si mise a gridare con stretto accento torinese, senza togliersi dal capo il cappelluccio dalle tese rialzate, calcato fin su gli occhi a sportello, appannati dal vino, nè la pipetta dalla bocca, con cui pareva stèsse a cuocersi il naso più rosso di quello della signorina Caporale. — Dôva ca l’è stô me car parent?
— Eccolo, — disse Papiano, indicandomi; poi rivolto a me: — Signor Adriano, una grata sorpresa! Il signor Francesco Meis, di Torino, suo parente.
— Mio parente? — esclamai, trasecolando.
Quegli chiuse gli occhi, alzò come un orso una zampa e la tenne un tratto sospesa, aspettando che io gliela stringessi.
Lo lasciai lì, in quell’atteggiamento, per contemplarlo un pezzo; poi:
— Che farsa è codesta? — domandai.
— No, scusi, perchè? — fece Terenzio Papiano. — Il signor Francesco Meis mi ha proprio assicurato che è suo...
— Cusin, — appoggiò quegli, senza aprir gli occhi. — Tut i Meis i sôma parent.
— Ma io non ho il bene di conoscerla! — protestai.
— Oh ma côsta ca l’è bela! — esclamò colui. — L’è propi për lon che mi ’t sôn vnù a trôvè.
— Meis? di Torino? — domandai io, fingendo di cercar nella memoria. — Ma io non son di Torino!
— Come! Scusi, — interloquì Papiano. — Non