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una sera (stavamo, io e la mamma, in un mezzanino) si raccolse gente, giù in istrada, che m’applaudi in fine, a lungo. E io ne ebbi quasi paura.
— Scusi, signorina, — le proposi allora, per confortarla in qualche modo. — E non si potrebbe prendere a nolo un pianoforte? Mi piacerebbe tanto, tanto, sentirla sonare; e se lei...
— No, — m’interruppe, — che vuole che suoni io più! È finita per me. Strimpello canzoncine sguajate. Basta. È finita...
— Ma il signor Terenzio Papiano, — m’arrischiai di nuovo a domandare, — le ha promesso forse la restituzione di quel denaro?
— Lui? — fece subito, con un fremito d’ira, la signorina Caporale. — E chi gliel’ha chiesto mai! Ma sì, me lo promette adesso, se io lo ajuto... Già! Vuol essere ajutato da me, proprio da me; ha avuto la sfrontatezza di propormelo, così, tranquillamente...
— Ajutarlo? In che cosa?
— In una nuova perfidia! Comprende? Io vedo che lei ha compreso.
— Adri... la... la signorina Adriana? — balbettai.
— Appunto. Dovrei persuaderla io! Io, capisce?
— A sposar lui?
— S’intende. Sa perchè? Ha, o piuttosto, dovrebbe avere quattordici o quindici mila lire di dote quella povera disgraziata: la dote della sorella, che egli doveva subito restituire al signor Anselmo, poichè Rita è morta senza lasciar figliuoli. Non so che imbrogli abbia fatto. Ha chiesto un anno di tempo per questa restituzione. Ora spera che... Zitto... ecco Adriana!