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sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

E se ne andò, ciabattando.

Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodochè difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa.

L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto — Beate le marionette, — sospirai, — su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, nè ritegni, nè intoppi, nè ombre, nè pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener sè stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poichè per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.

E il prototipo di queste marionette, caro signor Anselmo, — seguitai a pensare, — voi l’avete in casa, ed è il vostro indegno genero, Papiano. Chi più di lui pago del cielo di cartapesta, basso basso, che gli sta sopra, comoda e tranquilla dimora di quel Dio proverbiale, di maniche larghe, pronto a chiuder gli occhi e ad alzare in remissione la mano; di quel Dio che ripete sonnacchioso a ogni marachella: