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qua? Non s’accendevano ora d’una più viva luce interiore i suoi sguardi fuggitivi? e i suoi sorrisi non accusavano ora men penoso lo sforzo che le costava quel suo fare da savia mammina, il quale a me da prima era apparso come un’ostentazione?
Sì, forse anch’ella istintivamente obbediva al bisogno mio stesso, al bisogno di farsi l’illusione d’una nuova vita, senza voler sapere nè quale nè come. Un desiderio vago, come un’aura dell’anima, aveva schiuso pian piano per lei, come per me, una finestra nell’avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra nè per richiuderla nè per vedere che cosa ci fosse di là.
Risentiva gli effetti di questa nostra pura soavissima ebrezza la povera signorina Caporale.
— Oh sa, signorina, — diss’io a questa una sera, — che quasi quasi ho deciso di seguire il suo consiglio?
— Quale? — mi domandò ella.
— Di farmi operare da un oculista.
La Caporale battè le mani, tutta contenta.
— Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l’Ambrosini: è il più bravo: fece l’operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo specchio ha parlato? Che ti dicevo io?
Adriana sorrise, e sorrisi anch’io.
— Non lo specchio, signorina — dissi però. — S’è fatto sentire il bisogno. Da un po’ di tempo a questa parte, l’occhio mi fa male: non mi ha servito mai bene; tuttavia non vorrei perderlo.