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scal era finito lì, nel molino della Stia, e perchè io, Adriano Meis, dopo avere errato un pezzo sperduto in quella nuova libertà illimitata, avevo finalmente acquistato l’equilibrio, raggiunto l’ideale che m’ero prefisso, di far di me un altr’uomo, per vivere un’altra vita, che ora, ecco, sentivo, sentivo piena in me.
E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell’esperienza. Finanche il signor Anselmo Paleari non mi sembrò più tanto nojoso: l’ombra, la nebbia, il fumo della sua filosofia erano svaniti al sole di quella mia nuova gioja. Povero signor Anselmo! delle due cose, a cui si doveva, secondo lui, pensare su la terra, egli non s’accorgeva che pensava ormai a una sola: ma forse, via! aveva anche pensato a vivere a’ suoi bei dì! Era più degna di compassione la maestra Caporale, a cui neanche il vino riusciva a dar l’allegria di quell’indimenticabile ubriaco di Via Borgo Nuovo: voleva vivere, lei, poveretta, e stimava ingenerosi gli uomini che badano soltanto alla bellezza esteriore. Dunque, intimamente, nell’anima, si sentiva bella, lei? Oh chi sa di quali e quanti sacrifizii sarebbe stata capace veramente, se avesse trovato un uomo « generoso »! Forse non avrebbe più bevuto neppure un dito di vino.
— Se noi riconosciamo, — pensavo, — che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?
E mi proposi di non esser più crudele verso la povera signorina Caporale. Me lo proposi; ma, ahimè, fui crudele senza volerlo; e anzi tanto più, quanto meno volli essere. La mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E