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candida bontà soffusa di mestizia non poteva ispirarne; provavo però tanta letizia di quella prima confidenza ch’ella m’accordava: lieve e silenziosa confidenza, quale e quanta la delicata timidezza poteva consentirgliene. Era un fuggevole sguardo, come il lampo d’una grazia dolcissima; era un sorriso di commiserazione per la ridicola lusinga di quella povera donna; era qualche benevolo richiamo ch’ella mi accennava con gli occhi e con un lieve movimento del capo, se io eccedevo un po’, per il nostro spasso segreto, nel dar filo di speranza all’aquilone di colei che or si librava nei cieli della beatitudine, ora svariava per qualche mia stratta improvvisa e violenta.

— Lei non deve aver molto cuore, — mi disse una volta la Caporale, — se è vero ciò che dice e che io non credo, d’esser passato finora incolume per la vita.

— Incolume? come?

— Sì, intendo senza contrarre passioni..

— Ah, mai, signorina, mai!

— Non ci ha voluto dire, intanto, donde le fosse venuto quell’anellino che si fece tagliare da un orefice perchè le stringeva troppo il dito...

— E mi faceva male! Non gliel’ho detto? Ma sì! Era un ricordo del nonno, signorina.

— Bugia!

— Come vuol lei; ma guardi, io posso finanche dirle che il nonno m’aveva regalato quell’anellino a Firenze, uscendo dalla Galleria degli Uffizii, e sa perchè? perchè io, che avevo allora dodici anni, avevo scambiato un Perugino per un Raffaello. Proprio così. In premio di questo sbaglio m’ebbi l’anellino, comprato