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tazione con un gesto della mano che significava: « Che fai? che pensi? non ti curar di nulla! ».
E s’allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro.
A quell’ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri ancora in mente, ch’esso mi aveva suscitati, l’apparizione di questo ubriaco e il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m’intronarono: restai non so per quanto tempo a seguir con gli occhi quell’uomo, poi sentii quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata.
— Allegro! Sì, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l’allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Nè so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual’è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perchè, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar sè stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perchè credi che soffra io? Io sof-