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la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio.

— Libertà... libertà... — mormoravo. — Ma pure, non sarebbe lo stesso anche altrove?

Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. — Ecco la vita! — pensavo. E seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile, aspettando di punto in punto ch’ella levasse lo sguardo verso la mia finestra. Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand’era sola, fingeva di non accorgersene. Perchè? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch’io crudelmente mi ostinavo a dimostrarle?

Ecco, ella ora, posato l’annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere che non si curava nè punto nè poco di me, poichè aveva per proprio conto pensieri ben gravi da meditare, in quell’atteggiamento, e bisogno di solitudine.

Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino, riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e: — Perchè, del resto, — mi domandavo, — dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi, senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la follia di suo padre; rappresento