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bene, potevo io senza rischio, o meglio, senza vedermi costretto a mentire, aspirare a qualche altra compagnia men lontana dalla vita? Mi ricordavo ancora del cav. Tito Lenzi. Il signor Paleari invece non si curava di saper nulla di me, pago dell’attenzione ch’io prestavo a’ suoi discorsi. Quasi ogni mattina, dopo la consueta abluzione di tutto il corpo, mi accompagnava nelle mie passeggiate; andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte.

— Ed ecco che bel guadagno ho fatto io, — pensavo, — a non esser morto davvero!

Tentavo qualche volta di trarlo a parlar d’altro; ma pareva che il signor Paleari non avesse occhi per lo spettacolo della vita intorno; camminava quasi sempre col cappello in mano; a un certo punto, lo alzava come per salutar qualche ombra ed esclamava:

— Sciocchezze!

Una sola volta mi rivolse, all’improvviso, una domanda particolare:

— Perchè sta a Roma lei, signor Meis?

Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:

— Perchè mi piace di starci...

— Eppure è una città triste, — osservò egli, scotendo il capo. — Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea viva vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perchè non vogliono riconoscere che Roma è morta.

— Morta anche Roma? — esclamai, costernato.

— Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa