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religiose, nè ero più entrato in alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi vi conduceva insieme con Berto, per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare a me stesso se avessi veramente una fede. E Mattia Pascal era morto di mala morte senza conforti religiosi.
Improvvisamente, mi vidi in una condizione assai speciosa. Per tutti quelli che mi conoscevano, io mi ero tolto — bene o male — il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte. Chi sa quanti, a Miragno, dicevano:
— Beato lui, alla fine! Comunque sia, ha risolto il problema.
E non avevo risolto nulla, io, intanto. Mi trovavo ora coi libri d’Anselmo Paleari tra le mani, e questi libri m’insegnavano che i morti, quelli veri, si trovavano nella mia identica condizione, nei « gusci » del Kâmaloka, specialmente i suicidi, che il signor Leadbeater, autore del Plan Astral (premier degré du monde invisible, d’après la théosophie), raffigura come eccitati da ogni sorta d’appetiti umani, a cui non possono soddisfare, sprovvisti come sono del corpo carnale, ch’essi però ignorano d’aver perduto.
— Oh, guarda un po’, — pensavo, — ch’io quasi quasi potrei credere che mi sia davvero affogato nel molino della Stia, e che intanto mi illuda di vivere ancora.
Si sa che certe specie di pazzia sono contagiose. Quella del Paleari, per quanto in prima mi ribellassi, alla fine mi s’attaccò. Non che credessi veramente d’esser morto: non sarebbe stato un gran male, giacchè il forte è morire, e,