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Venne ad aprirmi un vecchio su i sessant’anni (Paleari? Papiano?), in mutande di tela, coi piedi scalzi entro un pajo di ciabatte rocciose, nudo il torso roseo, ciccioso, senza un pelo, le mani insaponate e con un fervido turbante di spuma in capo.

— Oh scusi! — esclamò. — Credevo che fosse la donna... Abbia pazienza: mi trova così... Adriana! Terenzio! E subito via! Vedi che c’è qua un signore... Abbia pazienza un momentino; favorisca... Che cosa desidera?

— S’affitta qua una camera mobiliata?

— Sissignore. Ecco mia figlia: parlerà con lei. Su, Adriana, la camera!

Apparve, tutta confusa, una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli, dolci e mesti, come tutto il volto. Adriana, come me! « Oh, guarda un po’! — pensai. — Neanche a farlo apposta! »

— Ma Terenzio dov’è? — domandò l’uomo dal turbante di spuma.

— Oh Dio, papà, sai bene che è a Napoli, da jeri. Ritìrati! Se ti vedessi... — gli rispose la signorinetta mortificata, con una vocina tenera che, pur nella lieve irritazione, esprimeva la mitezza dell’indole.

Quegli si ritirò, ripetendo: — Ah già! ah già!, strascicando le ciabatte e seguitando a insaponarsi il capo calvo e anche il grigio barbone.

Non potei fare a meno di sorridere, ma benevolmente, per non mortificare di più la figliuola. Ella socchiuse gli occhi, come per non vedere il mio sorriso.

Mi parve dapprima una ragazzetta; poi, osservando bene l’espressione del volto, m’accorsi ch’era già donna e che doveva perciò portare,