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e concettosi discorsi, di cui ho voluto dare un saggio; cominciò a entrare in confidenza, e allora io, che già credevo facile e bene avviata la nostra amicizia, provai subito un certo impaccio, sentii dentro me quasi una forza che mi obbligava a scostarmi, a ritrarmi. Finchè parlò lui e la conversazione si aggirò su argomenti vaghi, tutto andò bene; ma ora il cav. Tito Lenzi voleva che parlassi io.
— Lei non è di Milano, è vero?
— No....
— Di passaggio?
— Sì....
— Bella città Milano?
— Bella....
Parevo un pappagallo ammaestrato. E più le sue domande mi stringevano, e io con le mie risposte m’allontanavo. E presto fui in America. Ma come l’ometto mio seppe ch’ero nato nell'Argentina, balzò dalla sedia e venne a stringermi calorosamente la mano:
— Ah, mi felicito con lei, caro signore! La invidio! Ah, l’America.... Ci sono stato.
C’era stato? Scappa!
— In questo caso, — m’affrettai a dirgli, — debbo io piuttosto felicitarmi con lei che c’è stato, perchè io posso quasi quasi dire di non esserci stato, tuttochè nativo di là; ma ne venni via di pochi mesi, sicchè dunque i miei piedi non han proprio toccato il suolo americano, ecco!
— Che peccato! — esclamò dolente il cav. Tito Lenzi. — Ma lei ci avrà parenti, laggiù, m'immagino!
— No, nessuno....
— Ah, dunque, è venuto in Italia con tutta