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mostrato inchinevole a far amicizia con me. Poteva avere da quarant’anni: calvo sì e no, bruno, con occhiali d’oro, che non gli si reggevano bene sul naso, forse per il peso de la catenella pur d’oro. Ah, per questo un ometto tanto carino! Figurarsi che, quando si levava da sedere e si poneva il cappello in capo, pareva subito un altro: un ragazzino pareva. Il difetto era nelle gambe, così piccole, che non gli arrivavano neanche a terra, se stava seduto: egli non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla sedia. Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi alti. Che c’è di male? Sì, facevan troppo rumore quei tacchi; ma gli rendevano intanto così graziosamente imperiosi i passettini da pernice.

Era molto bravo poi, ingegnoso — forse un pochino bisbetico e volubile — ma con vedute sue, originali; ed era anche cavaliere.

Mi aveva dato il suo biglietto da visita: — Cav. Tito Lenzi.

A proposito di questo biglietto da visita, per poco non mi feci anche un motivo d’infelicità della cattiva figura che mi pareva d’aver fatto, non potendo ricambiarglielo. Non avevo ancora biglietti da visita: provavo un certo ritegno a farmeli stampare col mio nuovo nome. Miserie! Non si può forse fare a meno de’ biglietti da visita? Si dà a voce il proprio nome, e via.

Così feci; ma, per dir la verità, il mio vero nome... basta!

Che bei discorsi sapeva tenere il cav. Tito Lenzi! Anche il latino conosceva; citava come niente Cicerone.