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volerlo, e spesso mi avveniva di scrollar le spalle, seccato. Ma di qualche cosa bisognava pure che mi occupassi, quando mi sentivo stanco di girare, di vedere. Per sottrarmi alle riflessioni fastidiose e inutili, mi mettevo talvolta a riempire interi fogli di carta della mia nuova firma, provandomi a scrivere con altra grafia, tenendo la penna diversamente di come la tenevo prima. A un certo punto però stracciavo la carta e buttavo via la penna. Io potevo benissimo essere anche analfabeta! A chi dovevo scrivere? Non ricevevo nè potevo più ricever lettere da nessuno.

Questo pensiero, come tanti altri del resto, mi faceva dare un tuffo nel passato. Rivedevo allora la casa, la biblioteca, le vie di Miragno, la spiaggia; e mi domandavo: «Sarà ancora vestita di nero Romilda? Forse sì, per gli occhi del mondo. Che farà?». E me la immaginavo, come tante volte e tante l’avevo veduta là per casa; e m’immaginavo anche la vedova Pescatore, che imprecava certo alla mia memoria.

— «Nessuna delle due, — pensavo, — si sarà recata neppure una volta a visitar nel cimitero quel pover’uomo, che pure è morto così barbaramente. Chi sa dove mi hanno seppellito! Forse la zia Scolastica non avrà voluto fare per me la spesa che fece per la mamma; Roberto, tanto meno; avrà detto: Chi gliel’ha fatto fare? Poteva vivere infine con due lire al giorno, bibliotecario». — Giacerò come un cane, nel campo dei poveri... Via, via, non ci pensiamo! Me ne dispiace per quel pover’uomo, il quale forse avrà avuto parenti più umani de’ miei che lo avrebbero trattato meglio. — Ma,