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ponevo di vivere, o meglio d’inseguire con la fantasia, lì, su la realtà, la vita d’Adriano Meis piccino.


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Questo inseguimento, questa costruzione fantastica d’una vita non realmente vissuta, ma colta man mano negli altri e nei luoghi e fatta e sentita mia, mi procurò una gioja strana e nuova, non priva d’una certa mestizia, nei primi tempi del mio vagabondaggio. Me ne feci un’occupazione. Vivevo non nel presente soltanto, ma anche per il mio passato, cioè per gli anni che Adriano Meis non aveva vissuti.

Nulla o ben poco ritenni di quel che avevo prima fantasticato. Nulla s’inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sè!

Or che cos’ero io se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sè, pur calata nella realtà.

Assistendo alla vita degli altri e osservandola