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della mamma e della figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l’idea! Me n’ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi; e un altro, invece, s’era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo — oh suprema irrisione! — a subir quello che non gli apparteneva, falso compianto, e finanche l’elogio funebre dell’incipriato cavalier Pomino!

Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto.

Ma poi pensai che quel pover’uomo era morto non certo per causa mia, e che io, facendomi vivo, non avrei potuto far rivivere anche lui; pensai che, approfittandomi della sua morte, io non solo non frodavo affatto i suoi parenti, ma anzi venivo a render loro un bene: per essi, infatti, il morto ero io non lui, ed essi potevano crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di vederlo un giorno o l’altro ricomparire.

Restavano mia moglie e mia suocera. Dovevo proprio credere alla loro pena per la mia morte, a tutta quella « inenarrabile angoscia », a quel « cordoglio straziante » del funebre pezzo forte di Lodoletta? Bastava, perbacco, aprir pian piano un occhio a quel povero morto, per accorgersi che non ero io; e, anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può scambiare così facilmente un altro uomo per il proprio marito.

Esse si erano affrettate a riconoscermi in