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duto, in attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo.
Domandai, per distrarmi, al vetturino se ci fosse ad Alenga un’agenzia giornalistica:
— Come dice? Nossignore!
— Non si vendono giornali ad Alenga?
— Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli.
— C’è un albergo?
— C’è la locanda del Palmentino.
Era smontato da cassetta per alleggerire un po’ la vecchia rozza che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: — Se egli sapesse chi porta....
Ma ritorsi subito a me stesso la domanda:
— Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po’! Come mi chiamo?
Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta smania la scelta d’un nome e d’un cognome. Il cognome, specialmente! Accozzavo sillabe, così, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, che m’irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne... Eh, via! uno qualunque... Martoni, per esempio, perchè no? Carlo Martoni... Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: — Sì! Carlo Martello... — E la smania ricominciava.