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A voi ne vien la gente a capo chino,
E prima che la vostra scala saglia,
S’abbassa in su l’entrar dall’usciolino.
A voi nessuna fabbrica s’agguaglia,
Siete più bella assai che il Culiseo,
O s’altra a Roma è più degna anticaglia.
Voi siete quel famoso Pritaneo,
Dove teneva in grasso i suoi baroni
Il popol che discese da Teseo.
Voi gli tenete in stia come i capponi.
Mandate il piatto lor pubblicamente,
Non altrimenti che si fa a’ leoni.
Com’uno è quivi, è giunto finalmente
A quello stato che Aristotil pose,
Che ’l senso cessa, e solo opra la mente.
Voi fate anche le genti industrïose:
Chi cuce palle, e chi lavora fusa,
Chi stecchi, e chi mille altre belle cose.
Non vi ha nè l’ozio, nè ’l negozio scusa,
L’uno e l’altro ricapito vi trova;
Di tutti e due v’è la scienza infusa.
Se alla città vien qualche buona nuova,
Voi siete quasi le prime a sapella,
Par che corrieri addosso il ciel vi piova.
E qui si sente un romor di martella,
Di picconi e di travi per mandare
Libero ognuno in questa parte e in quella.
Ma s’io vi son, lasciatemivi stare,
Di questa pietà vostra io non mi curo,
Appena morto me ne voglio andare.
Non so più bel che star dentra ad un muro,
Quieto ed agiato, dormendo a chius’occhi,
E del corpo e dell’anima sicuro.
Fate, parente mio, pur degli scrocchi.
Pigliate spesso a credenza, a interesse,
E lasciate, ch’agli altri il pensier tocchi,
Che la tela ordisce un, l’altro la tesse.
fine della prima parte