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in luminae vitae. 413

tudine e il cuore depresso ma nessun pericolo imminente, don Giuseppe e Zaneto si ritirarono. La marchesa si accinse a passar la notte nella camera di sua figlia con la suora. Piero rimase nel salotto attiguo, sdraiato sul canapè, solo, al buio. Era stanco, aveva il capo grave di sopore e tuttavia non si era voluto allontanare di lì. Si addormentò verso le due, sognò un caos di figure assurde, di avvenimenti impossibili, tanto complicati e tardi che allo svegliarsi credette aver dormito un secolo. Si rizzò, quasi atterrito, a sedere sul canapè, chiedendosi dove fosse. Nel vano della finestra spalancata luceva un grande pianeta. Tese l’orecchio. Dalla camera dell’ammalata non il più lieve rumore; dalla finestra fievoli vocii confusi come di una moltitudine discorde. Andò ad ascoltare: grida, urla delle agitate, da una casa lontana. Ora si udivan forte, ora, col mutar dell’aria, venivano meno. La campagna scura, immensa, era silenziosa come il cielo. Nessun segno di vita. Piero aveva dormito mezz’ora. Gli venne languida in mente l’idea che le medesime stelle lucevano sui pascoli, sui boschi di Vena; e passò. Gl’infiniti occhi delle stelle parevano conoscere la domanda dell’inferma: “Hai perduta la religione?„ e guardar tutti a lui tristemente. Cosa volevano da lui? Egli pure guardò fiso il pianeta, pensando, senza volontà, pensieri