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366 | capitolo sesto. |
ignudi dei colli ricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poema, l’obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nudità ricompaiono, dovunque i sentieri cavalcano un dorso prominente, assise nei loro manti come gli amici di Job, le grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina. È in un selvaggio burrato dall’Astore che si cercano piangendo nel nascere le polle divise dell’Acqua Barbarena, la Fonte Alta, e tosto si appagano nel vaso di pietra onde corrono quindi, ridivise, a dolersi dolcemente ancora negli sparsi casali di Vena e nel giardino della signora che a villa Diedo, fra la conferenza di Carlino e il ballo, apprese con inquietudine pia il progetto di Jeanne, il pericolo, se Maironi la seguisse, d’una infezione mondana nella sua casta solitudine alpestre.
Presso la chiesa, sull’orlo di Val di Rovese, è un piccolo albergo non posto dalle Intelligenze delle montagne nè da quelle dell’aria, rustico al pian terreno dove il vino fermenta la domenica in canzoni e vocii, borghesemente lindo le scale sonore di abete, le stanze dall’impiantito di abete, che assiti di abete dividono, odorate di abete, dov’è gradevole, forse per la funebre somiglianza, sentirsi vivere. Capitano colà l’estate dal piano modesti clienti, visini anemici, stomacuzzi inerti, pic-