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numina, non nomina 291

passare lunghe ore e prendere qualche volta sulle ginocchia la mia povera sorellina, quella che annegò a quattro anni. Mi vennero in mente certe espressioni affettuose della Leu a loro riguardo: “lü che l’era inscì mai bon, lee che l’era inscì mai graziosa!”. Pensando queste parole così soletto, in quella casa vuota, su quella terrazza dove la passiflora che diede ombra in antico a mio padre, a mia madre, a mio zio, alla mia sorellina, si abbarbica tuttavia, morta, alle aste di un padiglione di ferro, mi si cominciò a mover dentro qualche cosa che non so dire e finalmente ho pianto un pianto amaro sulla mia casa derelitta e taciturna, sulla mia famiglia spenta e anche su me stesso, non degno di quelle anime. “Lü che l’era inscì mai bon, lee che l’era inscì mai graziosa!” Povera cara sorellina innocente! Era una notte delle più buie, neppure si vedeva sotto la terrazza il lago nero e immobile come le montagne avviluppate la fronte di mostruose nuvole che sole avevano un fioco albore. Dato sfogo a quel gran bisogno di piangere, provai l’intenso desiderio accorato di un segno che mi dessero di sè i miei morti, stetti sospeso, in ascolto, pur con la coscienza della mia follia. Mi parve udir un bacio dell’acqua sulla riva, prima; poi una voce di uccello notturno nei boschi della sponda opposta; poi niente,