vaso antico sulla consolle in faccia a Didone in trono, intorno all’erma di Virgilio nell’angolo fra le due finestre di ponente e di mezzogiorno, nei cristalli opachi, negli argenti bruniti, sulla stessa tovaglia cenerognola della mensa onde Carlino voleva bandito ogni candore vivo, ella confessò a se stessa che non avrebbe volentieri scambiato spine con la Pape. No, era un soffrire caldo e caro, il suo. Era come un fuoco di febbre senza dolore che assopisce i sensi e travaglia lo spirito in un lavoro d’immaginazioni intense e vane. Se la pungeva una vera e propria spina, era l’idea di non poter più avere sino a tarda notte un momento di solitudine o almeno di doverlo rubare. Benedetto Carlino che non poteva vivere senza società, senz’aver gente a colazione, gente a pranzo, gente alla sera! Adesso gli era venuto in mente d’invitare una brigata di conoscenti fiorentini avviati al Garda. Erano giunti alla mattina da Venezia, egli aveva mostrata loro la città, li aveva quindi ricondotti all’albergo e li aspettava a pranzo. La società indigena era invitata per le nove e mezzo, molto largamente, a udire della musica e una conferenza di Carlino stesso sul tema misterioso Numina, non nomina, con proiezioni. Carlino aveva pensata questa conferenza per il Circolo cittadino di letture, ma poi aveva smesso l’idea di tenerla in quel posto sia per certo