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272 | capitolo quinto. |
dura per la grossa Pape, come la chiamavano i suoi, fra il padre violento, il fratello sprezzante, la madre avara; e qualche gentile, fragile sogno era pur fiorito nella sua rozza mente come le rose su quella rustica muraglia, e come le rose ne cadeva stroncato, povera Pape. Jeanne, soddisfatta di averle detto due parole con bontà, si avvicinò, in attesa che i panieri fossero pieni di fiori, verso il gran leccio del bosco che le faceva invito laggiù in capo al viale caldo nell’ombra dorata delle thuje, nel riflesso dei muri sfolgorati in alto dal sole scendente. Giunta nel bosco fresco e scuro, pendente alla valle del Silenzio, dove le pareva che l’erbe e le frondi basse le mormorassero “sola?„ si levò dal seno la lettera di Piero, incominciò a rileggerne, tremandole le mani, l’ultima pagina e subito, come volendo sfuggire a qualche amaro di quella chiusa, risalì alla data — Oria — vi fermò lungamente gli occhi, ridiscese alle parole prime:
“Vedi dove sono, perdonami di non averti scritto che ci venivo, è stata una cosa inesplicabile. L’altra notte, a Brescia, mi sono svegliato di soprassalto con quest’idea, con la memoria viva delle parole tue quando mi esortavi al viaggio di Valsolda, forse le avevo riudite in un sogno che non ricordo, con la trepidazione, quasi, di subire un impulso del soprannaturale. Cercai di liberarmene, avrei voluto